“Il coraggio della Gen Z”

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2023

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Sono passati quasi sei mesi da quando le strade di Teheran si sono riempite di giovani uniti da uno slogan insolitamente impetuoso e inscalfibile: «Donna. Vita. Libertà». È il trittico di rivendicazioni cantilenate nel Paese degli ayatollah dallo scorso 16 settembre, il giorno in cui la «polizia della moralità» – l’unità delle forze armate iraniane deputata a far rispettare la legge islamica voluta dal regime – ha ucciso in custodia la 22enne di origine curda Mahsa Amini, dopo averla arrestata perché il suo hijab non le copriva del tutto i capelli, come prescrive la normativa. Da allora, secondo i dati della ong statunitense Human Rights Activists News Agency, il regime ha ucciso più di 500 manifestanti e ne ha arrestati quasi 20mila, cercando di arginare una rivolta che però è riuscita a far parlare di sé in tutto il mondo. Un successo inedito, che testimonia un cambiamento epocale in Medio Oriente e una svolta nella direzione dei diritti di cui anche l’Occidente dovrebbe occuparsi.

Parisa Nazari, mediatrice culturale e attivista che è nata a Teheran e vive in Italia, dice che «quel che è successo a Mahsa Amini è accaduto alla maggioranza delle donne iraniane che conosco. È una sistematica violazione dei diritti femminili perpetrata tramite la “polizia della moralità”, nata per “rieducarle” a vestirsi in modo più consono a una certa interpretazione forzata della sharia: al di là della patina religiosa, si tratta di una forma di controllo esplicito del corpo delle donne». La sorte di Mahsa e delle altre vittime è orrenda, spiega Nazari: «Le donne arrestate vengono aggredite verbalmente – quando non fisicamente – e condotte in luoghi dove dovrebbe avvenire la presunta “rieducazione”, ma dove nei fatti si calpesta la loro dignità. Io ci sono stata: c’è un tribunale sommario che nella migliore delle ipotesi commina una multa, nella peggiore rovina una vita. Per anni tutte noi abbiamo vissuto nel terrore di esprimerci liberamente».

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