“La sconfitta delle identity politics”

Anno

2024

Testata

Lucy. Sulla cultura

Qualche settimana fa, in una pagina Instagram del sottobosco dell’attivismo di una sinistra che qualche vecchio cronista definirebbe “extraparlamentare”, ho letto un post che mi è sembrato il primo canto di rondine a primavera. Una serie di card con uno dei font standard della piattaforma: «L’admin di questa pagina non è nato italiano. L’identità pare sia la prima cosa da mostrare, come i documenti alla polizia. Allora sia esplicito: chi scrive queste parole ha subito razzismo per gran parte della sua vita. Il fatto di aver subito razzismo non mi rende di per sé maggiormente cosciente del fenomeno razzista. Né mi rende automaticamente innocente, onesto, buono». L’admin continuava: «Non esiste la posizione degli ‘immigrati’ che tutte/i gli altri devono prendere per buona, come fosse parola del Signore. Quello che invece spesso succede è che uno cerca in noi quello che già pensava, e poi pretende che la posizione del nero amico sia l’unica accettabile, morale, possibile». E per finire, tra le altre cose: «Da immigrato il mio obiettivo non è chiudermi nella mia identità a dare patenti di alleato legittimo o meno. Il mio obiettivo è eliminarle, queste identità. E per farlo bisogna eliminare la base di ogni differenza sociale, quella di classe». Si può essere o meno d’accordo sulla prospettiva materialista e marxista di queste righe, ma il punto di vista che esprime, negli ultimi quattro o cinque anni nel contesto dell’attivismo progressista è stato guardato con sospetto, sminuito, quando non direttamente esposto alla gogna o, come da gergo di settore, a call-out.

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