“La seconda giovinezza di The Office, che ci ha insegnato a resistere”
Anno
2020
Testata
Wired Italia
Quando Maurizio Molinari, novello direttore di Repubblica, ha annunciato urbi et orbi la creazione del “Premio del direttore per il miglior giornalista della settimana” di Largo Fochetti – 600 euro lordi in busta paga e “una R stilizzata con il nome del vincitore” – nella mente di noi lettori si sono affastellati riferimenti comici ineludibili: un po’ il Fantozzi del “bel direttore”; un po’ Beppe Grillo (che però, quando istituiva con altri fini la rubrica del “Giornalista del giorno” sul suo blog, di comico aveva ormai ben poco); un po’, però, anche lo scalcagnato e adorabile responsabile di filiale di un’oscura azienda produttrice di carta, il Michael Scott di The Office, con volto prestato da una delle più caparbie facce di gomma del cinema americano, Steve Carell.
Nell’episodio “The Dundies”, il primo della seconda stagione della serie Nbc trasmessa tra il 2005 e il 2013, Michael si trova al centro di un capannello di suoi impiegati della grigia cittadina di Scranton, nella suburbia della Pennsylvania. Tutti hanno i musi lunghi, sapendo che sta per arrivare una delle ricorrenze che più detestano: i Dundies, appunto, una serata di premiazione in cui il loro straripante capo tenterà di intrattenerli con imbarazzanti performance canore e terribili battute che non fanno ridere neanche per sbaglio. Eppure Scott è entusiasta – è un entusiasta per natura, con la mente di un ragazzino di dodici anni – e alla fine sbotta: “What the hell, everybody! I mean, God, the Dundies are about the best in everyone of us! Can’t you see that?”.